Nell’affresco sono una delle figure di sfondo.

È questo l’incipit del romanzo seminale Q, scritto daLuther Blissett.


Non il Luther Blissett che state pensando. O meglio: quel Luther Blissett, ma non lui.

Mi spiego meglio, il romanzo Q venne partorito alcune decadi fa da un collettivo che usò come nom de plume o pseudonimo, adesso diremmo nickname o anche avatar, il nome del centravanti che giocò, passando perlopiù inosservato, anche al Milan.

Seminale perché il romanzo, incentrato sulle lotte religiose all’indomani della rivoluzione di un altro Luther, ossia Martin Lutero, avrebbe dovuto dare la stura a un nuovo movimento culturale e letterario, il NIE, vale a dire il New Italian Epic

Ecco, riprendendo l’incipit, mi vien da dire che nella foto dell’Eintracht Francoforte, squadra vincitrice della Coppa Uefa 1980, fa capolino una faccia che, più che essere sullo sfondo, sembra essere deliziosamente fuori dal coro.

Una strana Coppa Uefa, quella, con la Germania rappresentata da ben cinque compagini. Già, perché la vincitrice della precedente edizione, cioè il Borussia Mönchengladbach, squadra che in quegli anni diceva ed eccome la sua in Europa, a volte facendo anche la voce grossa, era arrivata intorno alla decima posizione in campionato ma, essendo detentrice, andò ad allinearsi alle quattro qualificatisi per diritto.

Con cinque tedesche ai nastri di partenza era ragionevole aspettarsi che qualcuna sarebbe potuta arrivare in semifinale. Bene, ne arrivarono quattro: Borussia, Bayern, Eintracht e Stoccarda. Con il Kaiserlautern eliminato ai quarti dai bavaresi.

Bavaresi che si trovarono davanti quelli del Francoforte in semifinale.

L’andata arrise a quelli del Bayern, con i vecchi bucanieri Hoeness e Breitner a timbrare un 2-0 che sembrava rassicurante. Sembrava, perché quell’anno i ragazzi dell’Eintracht si erano prodotti già in una rimonta da 0-2: al secondo turno contro i rumeni della Dinamo Bucarest, liquidati poi con un 3-0 ai tempi supplementari.
Il ritorno della semifinale tra l’Eintracht e il Bayern suonò ben altro spartito.
Quelli del Francoforte portarono la partita ai supplementari grazie a una doppietta del libero austriaco Bruno Pezzey. 
Sì, avete capito bene: un libero fece una doppietta al Bayern e li costrinse ai supplementari, che furono un crescendo rossiniano con quelli che Francoforte a imporsi per 5-1.
Bruno Pezzey, ma che ne sanno i duemila di cosa erano lui e Figueroa?

Per fortuna che c’è ilnostrocalcio.it.

Finale tutta tedesca, dunque, tra i detentori del trofeo, orfani di Simonsen trasferitosi altrove ma con un Matthäus in rampa di lancio, e i ragazzi della città sul Meno. 

Matthäus che all’andata impattò la gara sul 2-2, prima del 3-2 per il Borussia timbrato da Kulik. Quindi giorni dopo, Schaub, a poco meno di dieci minuti dalla fine stampò l‘1-0 per il Francoforte che, per effetto della regola della reti in trasferta, regalò l’Uefa 1980 al Francoforte, sponsorizzato dalla nipponica Minolta.

Il viso deliziosamente fuori dal coro di cui sopra restò invero fuori dal gioco e dalle occasioni in entrambe le partite.

Qualche giorno fa ho scritto un post sui segni zodiacali dei Palloni d’Oro. Il primo Pallone d’Oro asiatico (o se preferito il Premio per il calciatore Asiatico dell’anno) ha avuto incipit nel 1988, con primogenitura assegnata all’iracheno Ahmed Radhi.

Pure la Coppa Uefa di quell’anno fu assegnata con la doppia partita (sarà così sino all’Inter-Lazio 3-0 del 1998, prima finale in gara secca) e pure quella in rimonta dopo l’andata.

Ma una rimonta ben più… Epica, giusto per riannodarci al tentativo di Epica Italiana del collettivo Luther Blissett, ora noto come Wu Ming.

A un certo punto della stagione 1987-88 mi persuasi che il Werder di Brema, pur orfano di un Rudi Völler alle prese con una prima travagliata stagione nella Capitale, nella quale, impegno a parte, fornì una prestazione realizzativa peggiore di quella di Ian Rush, al quale però non venne concessa una seconda chance, potesse arrivare in finale.

Quelli del Werder arrivarono in semifinale dopo aver stoppato ai quarti il Verona, la squadra italiana che si spinse più su, e dopo aver messo in luce, oltre a Neubarth, anche l’erede dello stesso Völler al centro dell’attacco: Karl Heinz Riedle, che poi seguirà il buon Rudi anche a Roma, sponda Lazio però.

E invece il Werder uscì sconfitto, sia pure di misura, nello scontro fratricida in semifinale con le aspirine del Bayer Leverkusen.

Leverkusen in finale abbastanza a sorpresa, dunque.
Ma sorprendente anche l’altra finalista: l’Español.

Squadra poco accreditata quella catalana, ma capace di eliminare una dietro l’altra le milanesi, prima il Milan di Sacchi (sì, quello che avrebbe vinto lo scudetto) e poi l’Inter. Va detto che, Coppa Italia a parte, il Milan quell’anno perse due sole partite sul campo (e una a tavolino), entrambe a Milano e amendue per 0-2: contro la Fiorentina (con la prima serpentina monstre di Roberto Baggio) e l’andata contro l’Español.

In quell’Español c’era in porta la vecchia conoscenza N’Kono e in attacco Ernesto Valverde che poi avrebbe vinto una Coppa delle Coppe con il Barcellona. 

Ernesto Valverde che entrò, senza segnare, nell’azione del secondo gol che l’Español rifilò alle aspirine nell’andata della finale, conclusasi con un rotondo 3-0.

Tutto fatto?

Dopo lo 0-0 dei primi quarantacinque minuti del ritorno sembrava davvero che la Coppa potesse prendere la strada verso la penisola iberica, ma non bisogna mai dar per morti i tedeschi, che infatti si produssero in un veemente e furente secondo tempo, nel quale, sulle ali dell’entusiasmo e della spinta dei tifosi, timbrarono due reti in nemmeno venti minuti.

I minuti restanti furono un assedio al camerunense N’Kono.

In uno di questi, su una punizione, spuntò la testa di un trentacinquenne a incornare il tre a zero.
Come si dice remuntada in tedesco?

A realizzare il 3-0 fu l’uomo con il viso fuori dal coro, il grande assente della doppia finale del 1980, il sudcoreano Cha Bum-kun che risultò decisivo a un’età nella quale i nostri Campioni del Mondo, quelli Mundial, stentavano a trovar posto, con qualcuno, come il coetaneo Scirea all’ultima recita (più in panchina che in campo a dirla tutta e giusta), e altri, come Antognoni, già a svernare altrove.

Nel 1980, per la prima volta un asiatico vinse una coppa continentale europea; e nel 1988 per la prima volta un asiatico segnò in una finale europea.

L’asiatico, ormai l’avrete capito, era Cha Bum-kun, classe 1953, in Europa dal 1978 e futuro Calciatore Asiatico del Secolo nel 1999. 

E anche la seconda finale lo vide vincitore, sia pure ai rigori, e ancora una volta in rimonta visto che all’inizio partirono meglio gli spagnoli.
Cha Bum-kun non calciò nessun rigore e onestamente non so se era stato indicato come il quinto.

Messosi in luce nel suo paese, Cha Bum-kun mostrò anche in Germania le sue qualità. Era dotato di una grande velocità di base, della capacità di calciare con entrambi i piedi, di una buona forza fisica nonostante la statura non elevatissima e di una grande coordinazione di base che lo rendeva non solo un vero furetto d’area di rigore, ma anche particolarmente tempista, al punto da farne uno specialista, anche nel gioco aereo.

I primi a credere in lui, prima ancora di quelli dell’Eintracht e del Bayer, furono i dirigenti del Darmstadt.

In Bundesliga per lui c’è uno score che recita poco meno di cento reti in poco più di trecento partite.

Non male per i tempi.

La miglior stagione realizzativa fu quella 1985-86, dove timbrò diciasette volte il cartellino mettendo dietro tanto vecchie volpi come Völler e Allofs quanto giovani virgulti come Klinsmann, con quest’ultimo che non ha mai fatto mistero di essersi in parte ispirato proprio al sudcoreano.

Cha Bum-kun è ancora il miglior marcatore della nazionale sudcoreana che guidò, a suon di reti, alla prima storica qualicazione nel mundial messicano del 1986, dove incrociò l’Italia di Bearzot e Spillo Altobelli che, giova ricordarlo, alla fine dei gironi era il capocannoniere di quel mondiale.
Vinse l’Italia per 3-2 e Cha non segnò contro l’Italia.
Non segnò a nessuno, in effetti.

Zero reti per lui ai mondiali.
Come Van Basten, del resto. 

La mia recente passione per i kdrama hallyu sudcoreani (alcune serie tv son davvero ben fatte) e la concreta possibilità per Kim Min-jae, sudcoreano in forza al mio Napoli, di diventare il primo sudcoreano a vincere uno scudetto, da titolare e protagonista peraltro, e non come figura di sfondo, mi ha fatto ricordare di questo furetto anni ottanta.

Ha anche provato ad allenare, Cha Bum-kun, ma non è andata bene.

Ho principiato il post con l’incipit di Q, un romanzo permeato da lotte religiose, da fanatici della fede in lotta tra loro.
Cha Bum-kun è uomo dotato di una granitica e profonda fede cattolica, che lo porta non solo a studiare incessantemente le Scritture, ma spesso a discutere di teologia in pubblico, come un vero esperto, quale in effetti è dal momento che ha imparato a memoria la Bibbia e, in tal veste, ha sfidato a singolar tenzone, a colpi di versetti e sure, passi biblici e del Corano, Bibbia vs Corano, un Imam.

Cha Bum-kun contro  Ahmad Al Tarabulsi, l’Imam del quale si dice conosca a memoria il Corano, vincitore per tal motivo di un prestigioso premio riservato agli appartenenti al mondo islamico, solo che…

Solo che per Cha Bum-kun si tratterebbere della sempiterna sfida tra un attaccante e un portiere.

Già perchè Ahmad Al Tarabulsi è sì un Imam, ma è stato anche il portiere della nazionale del Kuwait che disputò Spagna 1982.

Sì, Ahmad Al Tarabulsi era il portiere titolare anche nella partita contro la Francia, quando lo sceicco Al-Ahmed fece annullare il gol di Giresse.

Già lì, da quell’episodio, avremmo dovuto capire che il calcio stava prendendo la strada del gas e del petrolio.

Sia come sia, Cha Bum-kun e Ahmad Al Tarabulsi son personaggi del nostro Tempo.

E pensare che qualcuno continua a chiamare tutto ciò Sport quando è molto, molto di più.