JOHN ROBERTSON
Gli devo ogni cosa.
Da quando è arrivato lui è cambiato tutto. Per il Club e per il sottoscritto.
Eravamo nelle parti basse della classifica della Seconda Divisione inglese. E con la brutta sensazione che il fondo non l’avevamo ancora toccato.
Io facevo dentro e fuori dal team e quando giocavo lo facevo fuori posizione. Mi chiedevano di fare cose che non so fare. E sono tante le cose che non so fare in un campo di calcio! Ad esempio non so correre, non so fare tackles e non so colpire di testa.
Insomma, né io né il Club avevamo una direzione, una linea o un’idea.
Poi è arrivato lui, Brian Clough!
Dopo due settimane aveva già deciso chi avrebbe avuto un futuro con lui al Nottingham Forest e chi no.
Decise, fra la sorpresa di molti, che io facevo parte del primo gruppo.
«A patto che la smetti di mangiare porcherie, che bevi un po’ meno, che smetti di fumare, che vai a letto prima la sera, che butti giù almeno 5 kg e che inizi ad allenarti seriamente» mi ha detto.
Roba da niente!
Però mi sono fidato di lui e ho cominciato a fare sul serio. Che ci crediate o no ho fatto tutto quello che mi ha consigliato il Boss!
Beh… quasi tutto. Con le mie adorate “fags”, le sigarette, proprio non ce la faccio! Stare un’ora senza fumare per me è una tortura. Allora arrivo in campo per ultimo per farmene una; oppure a metà allenamento chiedo di andare in bagno per farmi due tiri.
Si fa un gran parlare da anni di Brian Clough, dei suoi metodi, del suo stile, del suo carattere e degli incredibili risultati raggiunti con due squadre di provincia come il Derby County prima e il Nottingham Forest adesso.
Si parla anche di come sono andate le cose al Leeds… Secondo me da quelle parti si stanno ancora mangiando le mani per esserselo lasciato scappare in quella maniera!
Volete che vi sveli il suo segreto?
A Clough bastano pochi giorni per capire pregi e difetti di un calciatore. Dopo di che pretende semplicemente da te che tu faccia quello che SAI fare e smetta di fare quello che NON SAI fare.
Tutto qui.
Al sottoscritto, John Neilson Robertson, ha cambiato la vita.
Per prima cosa mi ha detto:«Figliolo, se tu sei un centrocampista centrale io sono Frank Sinatra».E mi ha messo subito all’ala sinistra.
Poi mi ha detto che per me era VIETATO rientrare nella mia metà campo, era vietato inseguire gli avversari ed era vietato lanciarmi in tackle e scivolate.
Poi mi ha detto che dovevo aspettare il pallone, anzi, PRETENDERE che mi passassero il pallone per poi fare qualche goal e tanti, tanti cross. Ed ha aggiunto che la mia permanenza in squadra dipendeva da quanti cross avrei fatto a partita.
Mi ha messo all’ala sinistra e da allora ho sempre giocato in quel ruolo e sempre da titolare.
Domani partiremo per Monaco di Baviera.
Fra tre giorni, il 30 maggio, giocheremo la finale della Coppa dei Campioni.
Pensare che due anni fa di questi tempi festeggiavamo la promozione nella First Division inglese!
Per Clough è un sogno che si avvera. A noi non ne ha mai parlato ma sappiamo tutti benissimo che non ha mai digerito la sconfitta in semifinale di qualche anno fa contro gli italiani della Juventus con il suo Derby County.
Ci danno per favoriti e ci può stare. Abbiamo personalmente eliminato due delle grandi favorite per la vittoria finale: il Liverpool al primo turno e i tedeschi del Colonia in semifinale.
Le due sfide contro i teutonici sono state incredibili. Pensare che io avevo quasi deciso di non giocare…
Il sabato precedente la prima sfida con il Colonia giochiamo contro il Chelsea a Londra e vinciamo per 3 a 1.
Dopo la partita, con un amico e le nostre mogli siamo andati al ristorante.
Pochi minuti dopo il nostro rientro a casa -sono le due di notte- suona il telefono.
Dall’altra parte del filo c’è mio cognato: «John, ho una terribile notizia da darti»
Ho pensato subito a mio padre, che aveva da tempo problemi di cuore.
«È il papà vero?” gli chiedo.
«No, John! Tuo fratello Hughie e Isobel sono morti. In un incidente stradale».
Avevano entrambi trentacinque anni e una figlia di otto, Gillian, che era nel sedile dietro ed è rimasta praticamente illesa.
Morti sulla vecchia Vauxall VIva che io gli avevo regalato dopo che Brian Clough era riuscito a fare avere a tutti i componenti della squadra una Toyota Celica nuova di zecca dopo la nostra vittoria in campionato.
Il giorno dopo ho chiamato Clough. Sapevo benissimo quanto contava per lui questa partita. Una semifinale di Coppa dei Campioni dove voleva a tutti i costi andarsi a prendere quello che ingiustamente gli era stato negato pochi anni prima.
Ma l’unica cosa che il Boss mi ha detto è stata «Fai quello che ti senti di fare figliolo. Io ti sono vicino e ti faccio le mie condoglianze».
… questo è quello che mi ha detto Clough prima della partita più importante della sua carriera …
Il suo primo pensiero è stato per me. Come fai a non amare quest’uomo?!
Così al lunedì abbiamo seppellito mio fratello e sua moglie.
Il giorno dopo sono tornato a Nottingham e in quello successivo sono sceso in campo al City Ground contro il Colonia nella semifinale di andata della Coppa dei Campioni.
È stata la partita più bella, avvincente ed emozionante alla quale io abbia mai partecipato.
Questo nonostante il campo fosse ridotto ad un acquitrino e dopo venti minuti scarsi di partita perdessimo già 2 a 0. Partita e qualificazione sembravano già compromesse.
Invece abbiamo iniziato a fare gioco, a creare occasioni e a schiacciare i tedeschi nella loro area.
Quando Birtles ha segnato il goal dell’1 a 2 con il quale siamo andati negli spogliatoi abbiamo capito che potevamo ancora combinare qualcosa di buono.
Poi ci ha pensato Bowyer a riportarci in parità e a metà del secondo tempo è avvenuto un autentico miracolo calcistico.
Ho segnato proprio io il goal del 3 a 2 ma la cosa incredibile è che ho segnato di testa e per di più in tuffo!
Il primo goal in tutta la mia carriera che segno di testa!
Ho alzato gli occhi al cielo … «Qua c’è lo zampino di Hughie» ho pensato.
I tedeschi però sono riusciti a pareggiare prima dello scadere e con il 3 a 3 finale non erano in molti quelli che ci davano una chance per la gara di ritorno a Colonia.
E invece ce l’abbiamo fatta! Uno a zero con goal di Ian Bowyer e fra tre giorni potremo coronare il sogno di una carriera intera, quello di salire sul tetto d’Europa.
… dopo tutto quello che Brian Clough ha fatto per me… beh, spero proprio di dargli una mano a realizzarlo.
Anche se continua a chiamarmi “Super Tramp”!
John Neilson Robertson nasce il 20 gennaio 1953 nella cittadina scozzese di Uddingston.
A diciassette anni, nel maggio del 1970, arriva al Nottingham Forest che lo mette sotto contratto e dopo pochi mesi, nell’ottobre del 1970, lo fa esordire in prima squadra.
Tecnica e visione di gioco sono di prim’ordine ma quella che sembrava una carriera destinata ai vertici del calcio britannico si arena improvvisamente.
Il rapporto con l’allora manager del Nottingham Allan Brown non è certo idilliaco.
John, che è tutto meno che un atleta “naturale”, viene accusato di scarso impegno in allenamento e di metterci poco “cuore” anche in campo.
Viene impiegato come centrocampista centrale ma le sue lacune in questo ruolo sono evidenti: scarsa corsa, quasi inesistente capacità in fase di copertura e una resistenza fisica assai limitata.
Fatica sempre più spesso a trovare posto fra i titolari e quando nel gennaio del 1975 arriva sulla panchina del Nottingham Forest Brian Clough lo trova addirittura in lista di trasferimento … con il solo Partick Thistle come Club interessato.
“Old Big ‘Ead” (uno dei tanti soprannomi di Clough) ci mette poche settimane a capire che:
a)Robertson sta giocando fuori ruolo e che non è un centrocampista centrale
b) Le poche cose che sa fare, dribblare gli avversari e crossare, le sa fare meglio di chiunque altro.
Clough sa toccare le corde giuste e John Robertson risponde alla grande.
In breve tempo diventa il fulcro della squadra.
Non deve sfiancarsi in inutili rincorse agli avversari ma deve rimanere negli ultimi 30 metri di campo, farsi dare la palla e “inventare”.
«Il nostro Picasso» lo chiamerà in più di una occasione Clough.
Ma Robertson ha un’altra caratteristica che lo rende praticamente impossibile da marcare: è assolutamente ambidestro.
Calcia con indifferente abilità con il piede destro e con il sinistro e con la stessa devastante precisione.
Due esempi definitivi di questa sua peculiarità: basta guardare i due goal con cui il Nottingham Forest vincerà le sue due Coppe dei Campioni consecutive.
1979 vs Malmoe. Robertson riceve palla sull’out di sinistra, salta il suo avversario diretto all’esterno, evita il raddoppio di un secondo avversario e dalla linea di fondo pennella di sinistro un meraviglioso cross sul secondo palo che Trevor Francis deve solo spingere in rete.
1980 vs Amburgo. Robertson riceve palla sempre sull’out di sinistra. Finge di puntare la linea di fondo mentre invece rientra verso il centro. Chiede l’uno-due a Birtles, riceve palla, salta Keegan e lascia partire un precisissimo destro che si infila alla sinistra del portiere dei tedeschi dopo aver accarezzato il palo.
Clough e Taylor (che nel frattempo si erano riuniti al Forest) non hanno mai nascosto la loro predilezione per «quel tipo grasso che gioca con il n° 11» come lo chiamava spesso proprio Clough.
A tal punto che proprio John Robertson sarà la causa della totale rottura di rapporti fra Clough e Taylor pochi anni dopo.
Accade infatti che nel 1983, quando Taylor, diventato manager del Derby County (ex-squadra di Clough e acerrimi rivali del Forest), dopo una corte spietata ed una eccellente offerta economica, riesce a soffiare John Robertson al Nottingham Forest con cui stava discutendo in quel periodo il rinnovo del contratto.
Il fatto che Taylor avesse contattato Robertson senza neppure avvisare Clough non fu mai accettato dal focoso manager di Middlesbrough. Il loro rapporto non si appianò mai fino alla morte dello stesso Taylor avvenuta solo sette anni dopo, nell’ottobre del 1990.
John Robertson però, anche per colpa di tanti infortuni, non riuscirà mai con i “Rams” ad esprimersi ai livelli a cui aveva abituato tutti a Nottingham.
Nel 1985 il Derby County lo lascerà libero e “Robbo” farà un romantico ritorno al Nottingham Forest, confermando però purtroppo che i suoi giorni migliori sono ormai alle spalle.
Una dozzina di partite prima di finire la sua fantastica carriera calcistica in squadre semiprofessionistiche.
La sua esperienza però è stata messa a frutto negli anni successivi.
Per vent’anni John Robertson è stato il braccio destro di uno dei più grandi allenatori britannici di questo secolo: il nord-irlandese Martin O’Neill, suo vecchio compagno di squadra al Nottingham, con il quale ha condiviso tra le altre le splendide esperienze sulle panchine di Leicester, Aston Villa e soprattutto Celtic Glasgow.
Proprio il periodo al Celtic Glasgow verrà definito da Robertson come «i miei anni più belli nel calcio»… Lui che era tifosissimo dei Glasgow Rangers!
Se dal campo Robertson ha avuto davvero tanto non così si può dire della sua vita privata, tutt’altro che fortunata fuori dal rettangolo di gioco.
Oltre all’incidente in cui perirono il fratello e la cognata e alla morte del padre nell’anno successivo, John dovrà sopportare anche la peggiore tragedia possibile per un padre: seppellire una figlia, la piccola Jessie, nata con una malformazione al cervello e tetraplegica, morta in tenera età.
«Penso ogni singolo giorno alla mia piccola Jessie. E ogni giorno che posso vado al cimitero e rimango un po’ di tempo a parlare con lei».
In occasione dei funerali della piccola Jessie chi era presente quel giorno vide John posare una lettera nella bara a fianco della figlia. Non svelerà a nessuno il contenuto. Dirà soltanto, e molti anni dopo, che il succo di quel biglietto era «Grazie piccola mia, per avermi scelto come papà …»
Robertson nel 2013 è rimasto anche vittima di un attacco cardiaco (giocando a tennis, una delle sue grandi passioni) dal quale si è ristabilito perfettamente e che, come ricorda in ogni occasione,«è stato quello che mi serviva per decidermi finalmente a smettere con le mie adorate sigarette!».
Per finire un dato che forse più di ogni altro può dare l’idea del valore di questo grandissimo calciatore che molto probabilmente non ha avuto i riconoscimenti, soprattutto internazionali, che avrebbe meritato.
Nel 2015 un sondaggio tra i tifosi del Nottingham Forest lo ha eletto come “Miglior giocatore della storia del Nottingham Forest”.
Non male per un «tipo grasso che non sa correre, non fa contrasti e non colpisce di testa».
ANEDDOTI E CURIOSITÀ
Brian Clough non ha mai nascosto la sua predilezione per Robertson. Anche se ne ha fatto spesso oggetto di molte delle sue proverbiali battute.
Clough 1: «John Robertson è veramente un uomo poco attraente. Sembra un vagabondo a volte, ma per me personalmente è utilissimo. Nelle giornate in cui mi sento particolarmente spento o giù di tono mi vado a sedere vicino a lui. Lo guardo e un istante dopo mi sento come Paul Newman!»
Clough 2: Clough, come si è già detto, continuava a ripetere ai suoi di passare la palla appena possibile «a quel ciccione con il numero 11». Dopo un po’ la cosa iniziò ad infastidire Martin O’Neill, che, giocando all’ala dalla parte opposta, veniva raramente coinvolto nel gioco. Finalmente un bel giorno O’Neill decide di affrontare l’argomento con Brian Clough:
«Boss, ma non possiamo sempre e solo giocare a sinistra. Qualche volta la palla dovete darla anche a me!».
«Perché mai dovremmo dare la palla a te quando sull’altra fascia c’è un genio?»
Fine della discussione.
Clough 3: Nel suo ultimo e poco fortunato periodo al Nottingham durante un incontro con il Luton, tra il primo e secondo tempo Clough si rivolge a Robertson:«Robbo, se vuoi ti puoi fumare una sigaretta prima di tornare in campo».
«Grazie Boss! –risponde Robertson, che poi riprende-Però sono stupito. Non me lo ha mai lasciato fare prima».
«È solo per vedere se almeno questo serve a qualcosa, perché peggio di come hai giocato finora è impossibile!» gli sbraita contro un inviperito Clough.
Clough però sapeva riconoscere tutto il suo talento. Più di una volta disse di Robertson:
«Dategli una palla e un metro di spazio e lui diventa un artista: Il Picasso del calcio!»
Ovviamente, sempre da Clough, c’è un’altra versione divertente che coinvolge anch’essa un grande pittore.
Durante una chiacchierata con il celebre telecronista Brian More, Clough sta tessendo le lodi di Robertson.
Brian Moore, un po’ perplesso, gli risponde «Sinceramente non vedo tutte le qualità che mi dici, Brian» e poi aggiunge «È cicciottello, un po’ goffo, lento… insomma non sembra neanche un calciatore!» La risposta di Brian Clough non si fa attendere:«Vero, Brian. Ma neanche Van Gogh sembrava un pittore. Però è stato il più grande di tutti».
Infine un aneddoto su Robertson direttamente dalla autobiografia del grandissimo manager inglese.
«Durante un tour precampionato in Germania mando gli undici titolari fuori a fare il riscaldamento pre-partita. Li conto e mi accorgo che manca Robertson. Scendo negli spogliatoi e lo trovo seduto su una panchina che si sta letteralmente “grattando le palle”. Gli urlo di tutto: “Sei una disgrazia, John. Gli altri sono in campo a correre e tu qua a cazzeggiare. Non sai correre, non sai saltare… non sai nemmeno nuotare! Non sopporti i raggi del sole e non riusciamo a tirarti giù dal letto alla mattina!”»
«Però-conclude Clough- ti sopporto solo perché sei un fottuto genio!».
Divertente la descrizione che fa della sua “avvenenza” il compagno di squadra Kenny Burns.
«Robbo non va mai al supermercato. Ha talmente tante rughe in faccia che ogni volta che si avvicina alla cassa parte il macchinino che legge il Barcode!»
Nel maggio del 1981 si gioca per il purtroppo defunto torneo interbritannico quella che per gli scozzesi è “la partita delle partite”. Quella contro l’Auld Enemy: l’Inghilterra.
Si gioca a Wembley e per i tifosi scozzesi è un vero e proprio pellegrinaggio.
Vincere a Wembley contro gli inglesi non ha semplicemente prezzo.
La partita è bloccata sullo 0 a 0, quando a metà della ripresa c’è un calcio di rigore per la Scozia.
John Robertson si fa consegnare il pallone.
Ma mentre lo sta posizionando sul dischetto, Trevor Francis, attaccante dell’Inghilterra e suo compagno di squadra al Nottingham, si avvicina a Corrigan, il portiere inglese.
Gli sussurra qualcosa all’orecchio: è evidente che gli sta suggerendo dove il suo compagno di squadra tirerà il calcio di rigore.
John Robertson prende la rincorsa e tira.
Palla a sinistra e Corrigan dall’altra parte.
«Il bluff di Trevor non ha funzionato. L’ho tirato esattamente dove li tiro sempre e probabilmente loro si aspettavano il contrario» ricorderà divertito Robertson.
Aggiungendo «Certo che a fine partita ci ho pensato… se l’avessi sbagliato non sarei più potuto tornare aldilà del Vallo di Adriano!»
Infine, l’ultima perla è proprio di John Robertson.
«Tutti da sempre a prendermi in giro per il mio aspetto. E pensare che io ho sempre fatto di tutto per assomigliare al mio grande idolo Brian Ferry, il cantante dei RoxyMusic… Non è andata benissimo, vero?»