Quando Stalin diede il placet. La partita in Piazza Rossa del 1936
Lo scorso secolo, breve, lungo o convenzionale che sia stato, è stato dominato da due giganti.
Il primo gigante ha avuto i connotati della Politica, prima con i totalitarismi e nazionalismi e poi con le tappe per il riconoscimento dei diritti civili.
L’altro gigante è stato lo Sport.
Ogni appassionato sa bene che lo sport, a ogni latitudine, ha rappresento un formidabile veicolo di propaganda, un vettore particolarmente gradito dai regimi, laddove i successi sportivi spesso son serviti a cementare e tenere calma la popolazione, nonché a evidenziare alla stessa la bontà dei dettami del regime stesso.
Un’applicazione moderna, ma mai del tutto superata, del nostrano panem et circenses.
Una pubblicità della metà di questa decade cantava il calcio come vero conquistatore del mondo, essendo riuscito ad arrivare laddove hanno fallito gli Hitler e i Napoleone, i Gengis Khan e i Tamerlano, i grandi di Spagna e i Saladino.
Spesso però, quando la Politica e lo Sport entrano in contatto ne escono dei cortocircuiti interessanti.
La Politica, per esempio, cercò di vietare il calcio nell’URSS. La cosa può sembrare strana, visto che a tutt’oggi, nonostante altre rivoluzioni più o meno pacifiche, permangono, come quando ero piccolino, in Russia come in altri paesi d’Oltrecortina, identificativi (non so come altro chiamarli) quali Dinamo, Lokomotiv, CSKA, Spartak, a indicare le compagini e le polisportive della polizia, delle ferrovie, dell’esercito e così via. A ben vedere, sembrerebbe che durante il comunismo gli apparatcik del Partito avevano in somma preferenza lo sport e il calcio.
Eppure il calcio, per continuare a essere praticato nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dovette subire una sorta di esame di Stato da parte di Stalin.
Vado a contestualizzare un po‘, perché il contesto non è importante.
È tutto.
Il calcio esisteva ed era praticato a da quelle parti ben prima dell’ascesa al potere del georgiano dagli iconici baffoni. Regnante lo Zar si giocava già a calcio, ma a giocare non erano certamente le classi più umili, né tantomeno i rampolli della nobiltà. No, ai tempi dello Zar a giocare a calcio erano in massima parte i figli della borghesia o dei boiardi di Stato.
Poi lo Zar fu defenestrato.
La Rivoluzione d’Ottobre, con la celebre presa del Palazzo d’Inverno, fece da volano alla diffusione del calcio, perchè gli impianti sportivi, che erano circoli esclusivi con quote proibitive, vennero nazionalizzati e aperti a tutti sotto forma di organizzazioni sportive di tipo “dopolavoristico”.
L‘euforia iniziale ebbe un raggelamento intorno alla metà degli anni ’20, quando i comitati politici cominciarono a interrogarsi sul ruolo dello sport all’interno dell’ideologia socialista. Va detto che il calcio era, insieme all’hockey e il pugilato, tra gli sport più amati. Questo amore delle masse non attecchiva però sui superburocrati di Stato, che cominciarono a pensare di vietare il calcio.
Perché?
Cominciarono a persuadersi che fosse un gioco diseducativo, che premiava l’inganno, perché ingannevoli erano considerati i dribbling e le finte. Lo so che la cosa può sembrare grottesca, distopica anche, ma le cose nell’Unione Sovietica andavano così. C’erano persone che impiegavano il tempo nel vagliare cosa fosse in sincrono e cosa invece stridesse con l’ideale socialista che aveva permesso e cementato la Rivoluzione.
A un certo punto venne quasi fuori che no: il calcio non era conforme! A sentir loro era ambiguo, falso, capace di traviare i giovani, di assuefarli all’inganno e alla furbizia.
Ci furono invettive feroci e difese accorate, e tenete ben presente che, salvo un amore viscerale per la pianura della Siberia, non era affatto salutare appassionarsi a qualcosa che cozzasse con l’ortodossia del Partito.
Si pensò anche a riformare radicalmente le regole del gioco (per esempio rendendo impossibile il contatto fisico tra i giocatori), ma alla fine non se ne fece nulla perché il popolo (attraverso lettere ai giornali) fece chiaramente intendere di amare il calcio così com’era, anche se “politicamente non troppo corretto”.
Alcuni perorano la difesa del calcio accostandolo al gioco degli scacchi, anch’esso basato sì sulla strategia, ma anche sull’ingannare l’avversario.
Nella decade successiva, il giuoco del calcio divenne sempre più popolare e anche gli alti papaveri dello Stato cominciarono ad appassionarsi a 22 persone in pantaloncini che cercavano di infilare una sfera in una porta. Al gioco si appassionò anche il bieco, e cupo, Lavrenti Berija, presidente onorario del club sportivo Dinamo, appartenente al Ministero dell’Interno, già capo dell’OGPU georgiano, vale a dire della polizia segreta, che cercò di sbarrare la strada ai club concorrenti con i modi che gli erano propri: violenza, arresti, torture, gulag e così via. Detto en passant, tutte le squadre che si chiamavano Dinamo appartenevano ai servizi segreti.
Il nome di Berija è stato, dopo la sua morte scientemente sottoposto a una damnatio memoriae e quasi cancellato dai libri di Storia, ma non certo per quel che fece come presidente onorario della Dinamo.
Sia come sia, il campionato divenne una farsa, ma, come si dice?, in ogni muro c’è una crepa.
E da lì passa la luce.
Nel 1935 Nikolaij Starostin fondò, insieme ai suoi fratelli Aleksandr, Andrej e Pëtr, lo Spartak Mosca, una compagine caratterizzata da una forte avversione verso il regime. E credetemi, ci voleva del fegato per fare una cosa del genere nell’Unione Sovietica dei tempi di Stalin e dei suoi accoliti. Vi ricordare le gelide pianure della Siberia di qualche riga fa?
Il nome venne scelto in onore di Spartaco, uno schiavo romano che aveva capeggiato una rivolta contro i potenti per riconquistare la libertà perduta.
In tutto ciò, cosa ne pensava Stalin del calcio?
Niente.
L’uomo d’acciaio era indifferente al calcio, ma nel 1936 volle vederci più chiaro e decise di assistere a una partita di pallone, per avallare o meno, di persona, l’aderenza della disciplina all’ortodossia del credo comunista.
Tutto fu preparato per la Giornata della Cultura fisica.
Sulla Piazza Rossa venne cucito a mano un manto di feltro verde, quindi venne allestita una tribuna.
Una sola.
Di curve manco a parlarne, ma come surrogato a una di esse s’ergeva, stagliata in lontananza, la Cattedrale di San Basilio.
Tutto per una partita dimostrativa davanti a Stalin.
Stalin avrebbe assisitito alla partita, ma al minimo cenno di noia o insofferenza essa sarebbe stata sospesa.
Durata? Sui 30 minuti, eccezion fatta per la noia di Stalin.
Tutto pronto, dunque.
E le squadre? Qui viene il bello.
Nessuna squadra voleva giocare una simile partita. Anche per via del fatto che lo stesso Berija, timoroso di perdere il suo giocattolo, non mancò di minacciare chiunque avesse anche solo in pensiero di scendere in campo. E credetemi, nessuna squadra voleva inimicarsi un individuo del genere.
Al di là delle minacce di Berjia, non è che ci fosse comunque la fila per esibirsi davanti al giorgiano.
I rischi erano innumerevoli.
E se una pallonata avesse colpito il segretario Stalin?
E se un gesto, uno qualunque, non fosse stato considerato in linea con la visione socialista dello sport che aveva l’uomo delle purghe?
Servivano fegato e coraggio.
Che non facevano certo difetto al leggendario Nikolaij Starostin e al suo Spartak. Quelli della Dinamo invano cercarono di convincerli a non giocare davanti alle massime autorità del Partito.
Ma non ci fu verso.
Dal momento che nessuno voleva giocare si optò per far giocare i titolari dello Spartak Mosca contro le proprie riserve.
La partità durò 43 minuti e terminò 4-3.
Stalin non si annoiò.
Fu così che il campionato di calcio sovietico poté continuare a esistere, anche per merito dello Spartak.
Il punto è che, per non annoiarlo, si diede vita a una partita falsata.
Tutto o quasi fu programmato in anticipo, alla “sceneggiatura” e alla “coreografia” della partita lavorò anche un regista teatrale.
Tutto, anche le azioni dei 7 gol previsti ed effettivamente realizzati (risultato finale 4-3 in favore dei titolari), venne pianificato a tavolino.
Insomma, il calcio che rischiava di essere messo fuorilegge perché premiava l’inganno fu approvato in virtù di una gigantesca maskirovka, di quelle che, ora come allora, sanno mettere in scena da quelle parti.
Non tutto vien per nuocere, senza quella maskirovka difficilmente avremmo avuto la meravigliosa e tragica parabola di Eduard Streltsov, né ci saremmo interrogati sul laboratorio di Lobanovski. E infine, senza quella maskirovka, Lev Yashin sarebbe rimasto l’operaio metalmeccanico che stupiva i suoi amici agguantando al volo i bulloni che gli lanciavano.